Francesco Moser, famosissimo ciclista degli anni ’70 e ’80, non ha bisogno di presentazioni, ma vale certo la pena ricordare alcune delle sue grandi imprese: nel corso della sua carriera, dal 1973 al 1988, vince un Giro d’Italia, tre Parigi-Roubaix, due Giri di Lombardia, una Milano-Sanremo, un campionato del mondo su strada e uno su pista. Grazie alle sue caratteristiche di passista, inoltre, nel 1984, a Città del Messico, riesce a strappare il record dell’ora a Eddy Merckx, dopo 12 anni di dominio incontrastato. In sella a un nuovo tipo di bicicletta con ruote lenticolari, Moser compie infatti 51,151 km in un’ora. Con le sue 273 vittorie su strada, precede Saronni e Cipollini e, ad oggi, risulta il ciclista italiano con il maggior numero di successi all’attivo.
Lo incontriamo appena fuori Trento, nell’azienda agricola della sua famiglia che comprende anche una cantina di vini trentini, e una cosa appare subito chiara: Francesco Moser non è il tipo d’uomo che perde tempo a crogiolarsi nel proprio mito.
No, ha i piedi ben piantati per terra, in quell’amata terra trentina che coltivava prima di diventare un ciclista famoso e che ha continuato a coltivare, al termine della sua carriera. È significativo il fatto che ci accolga con ancora gli stivali di gomma addosso, di ritorno dai campi. Così, davanti a un bicchiere del suo vino ci facciamo raccontare le gioie e le fatiche di una vita da ciclista/vignaiolo.
Francesco, dalle biciclette ai vigneti, come nascono e come si coltivano i campioni?
«In realtà io sono passato dalla vigna alla bici e poi sono tornato alla vigna. Ho sei fratelli e tre sorelle e tutti abbiamo lavorato in campagna con nostro padre, all’epoca vendevamo l’uva alla cantina sociale. Conveniva, anche perché alcuni dei miei fratelli, Aldo, Enzo e Diego hanno intrapreso la carriera ciclistica e alla fine, per vari motivi, nei campi sono rimasto solo io. Quando ho iniziato anch’io a correre avevo sulle spalle tutta la responsabilità dell’azienda e devo dire che il lavoro dei campi è stato senza dubbio un’ottima palestra, anche perché negli anni ’60 non c’erano tutte le comodità di adesso, era un lavoro molto più fisico, molto più faticoso».
Il Giro d’Italia per le strade del Veneto ha dimostrato che il ciclismo è ancora uno sport molto amato. Allora qual è il problema? Non ci sono più gli sponsor di una volta o non ci sono più i campioni di una volta?
«Sono cambiate tante cose, sono cambiate le regole, sono nate queste grosse squadre chiamate World Tour, una ventina in tutto, in Italia ce ne sono un paio: la “Lampre” e la “Cannondale” (ex “Liquigas”, ndr), poi ci sono delle squadre minori chiamate Professional, ma la tendenza, per una questione economica, è quella di formare squadre Continental (divisione ancora inferiore, ndr). Il fatto è che le World Tour costano anche più di 10 milioni di euro l’anno ed è difficile trovare sponsor italiani in grado di allestire da soli una squadra del genere. Però quello economico non è l’unico problema del ciclismo odierno: la verità è che non ci sono più l’attaccamento e la passione di una volta».
Per quanto riguarda l’incarico di Commissario Tecnico della Nazionale, a quando un triveneto come ad esempio, per non fare nomi, Francesco Moser?
«Ormai non ho più l’età per farlo, aveva senso che lo facessi quando ho smesso di correre, ma ormai sono completamente uscito dall’ambiente. Potrebbero farlo altri corridori più giovani di me, Moreno Argentin per esempio. Ma credo che per il momento il problema non si ponga perché Cassani è stato appena nominato».
Francesco, lei ha introdotto per la prima volta la ruota lenticolare, aggiudicandosi il record dell’ora a Città del Messico, esattamente trent’anni fa. Come produttore di biciclette ritiene che ci sia ancora qualcosa da scoprire grazie anche alle nuove tecnologie e ai nuovi prodotti?«Quando ho fatto il record con quel nuovo tipo di ruote che io e il mio staff avevamo inventato, ho ricevuto moltissime critiche: prima dicevano che era impossibile utilizzarle, poi che ho vinto solo grazie a quelle ruote. Ma questo fa parte del gioco. Oggi il record dell’ora non si può più fare con le ruote lenticolari perché la Federazione ha cambiato le regole, chi vuole tentare l’impresa deve farlo con una bicicletta da corsa standard, con i raggi e tutto il resto. La ricerca non si ferma mai, ma queste limitazioni introdotte dalla Federazione l’hanno frenata molto. Poi non capisco il senso di permettere l’utilizzo di ruote lenticolari su strada, che è più pericoloso perché si è in gruppo, ma non su pista, correndo da soli».
Come si presenta il prossimo Giro d’Italia e chi potrebbe aggiudicarselo?
«Il Giro quest’anno è molto difficile, ci sono ben dieci arrivi in salita e personalmente ritengo siano troppi. Contando che ci sono anche tre Cronometro, significa che i corridori che tentano la scalata alla classifica devono sostenere 13 tappe “a tutta”, non possono risparmiarsi, devono stare sempre davanti e, a queste condizioni, è davvero dura. Al momento il favorito sembrerebbe Quintana, tra gli italiani gli osservati speciali sono Scarponi e Basso. Ma servono giovani talenti che si impongano a sorpresa, rimescolando le carte in tavola».
Per fare un buon ciclista ci sono molte variabili, tra le quali anche una buona annata, e per fare un buon vino?
«È vero che per un ciclista non tutte le annate sono uguali e lo stesso è per il vino. La differenza è che per un ciclista dipende dalla condizione psicofisica, mentre per il vino dipende dalle condizioni climatiche (ride, ndr)»