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Tag: Italia

Alla maratona di New York per coronare un grande sogno

di Paola Bosaro

Nicola Baldin racconta le emozioni della corsa più famosa del mondo

La maratona più famosa del mondo vista con gli occhi dei partecipanti dell’Est Veronese. Ogni anno sono circa 2.000 gli italiani che partecipano alla Maratona di New York, quella affascinante manifestazione che attraversa i cinque distretti di New York: Staten Island, Brooklyn, Queens, Bronx e Manhattan, per giungere al traguardo in Central Park. Si tratta del più spettacolare evento sportivo al mondo, che vede la partecipazione di oltre 60 mila atleti (professionisti e non) e 2 milioni di spettatori lungo tutto il percorso. Anche dall’Est Veronese partono ogni anno appassionati della corsa per tentare l’impresa. Trascriviamo qui la bellissima testimonianza di Nicola Baldin, presidente dell’Avis comunale di Albaredo e iscritto alla Federazione italiana amatori Sport per tutti, che ha preso parte all’ultima «New York Marathon» assieme ad una ventina di runner del “Gruppo podistico Valdalpone”. È un condensato di emozioni forti, di amore per lo sport, un inno all’amicizia e alla solidarietà fra vicini (di nazionalità, pelle, cultura) e lontani.
«La mattina dell’1 novembre 2015 – giorno della gara – è iniziata molto prima dell’alba, precisamente alle 4.30. In realtà non siamo riusciti a chiudere occhio per il frastuono dei balli, dei canti e della musica assordante della notte di Halloween a Times Square. Ci prepariamo in camera con tanta ansia, ci interroghiamo a vicenda su quali vestiti indossare e sulle previsioni del tempo. Le mani tremano nell’afferrare il pettorale di iscrizione, che maneggiamo come se si trattasse di un’antica pergamena. Il cuore batte sempre più forte: ci si abbraccia e si percepisce di minuto in minuto aumentare l’entusiasmo. Una frase spezza per un attimo la trepidazione: Dai ragazzi, forza che la colazione ci attende. E in un attimo la sala dell’hotel si riempie di runner multicolori e di ogni nazionalità. È necessario fare una buona colazione, però bisogna anche stare attenti che ciò che si mangia non ci crei qualche problema durante la gara. Intanto ci scambiamo le esperienze, le abitudini, gli obiettivi della gara, ma il denominatore comune è la voglia di divertirsi e di correre una maratona che sarà indimenticabile».

Nicola Baldin New York
Alle 5.30 il pullman attende i maratoneti per portarli alla linea di partenza. Gli atleti salgono ordinatamente. «Le gambe iniziano a tremare, tratteniamo qualche lacrima a fatica, abbiamo qualche timore per qualche goccia di pioggia, ma tutto svanisce quando si intravvede dai finestrini il mitico ponte Da Verazzano che unisce Brooklyn a Staten island, luogo della partenza. Scendiamo, siamo in tantissimi, coloratissimi, da ogni parte del mondo. Ci avviciniamo alle “nostre” zone di partenza: ce ne sono tre di diverso colore, blu, arancione e verde; noi ci dirigiamo verso il settore verde. Quindi troviamo un’area per cambiarci, nel frattempo vediamo entrare gli atleti diversamente abili che, come noi, si preparano a questa grande avventura: li applaudiamo e ci scaldiamo, non solo le mani».
Alle 9 si avvicina la partenza… «Dallo schermo vediamo le top runner femminili partire, quindi gli uomini, e dopo lo sparo ci siamo noi, quelli che faranno grande questa maratona; persone che da mesi si preparano duramente e con molti sacrifici, che vogliono tagliare il traguardo dopo 42 km e 195 mt di sudore e fatica anche psicologica, persone per le quali si sta realizzando un sogno rincorso per tutta la vita, atleti che non vedono l’ora di avere al collo la fantastica medaglia che custodiranno per sempre nel loro cuore».
Ore 10.15: viaaaaa… «Un abbraccio e si parte. Vediamo in lontananza i dirigenti del nostro gruppo sportivo e come pazzi cerchiamo di attirare la loro attenzione, ci scorgono finalmente. I primi chilometri sono tutti sul ponte Da Verazzano: ancora non ci sembra vero! Ecco il cartello del primo miglio; passato il ponte ecco la marea di gente che ci applaude, ci incita e grida Italy, Italy, go, go, la pelle d’oca sale tremendamente. I gruppi musicali, gli animatori di strada, i ballerini lungo il percorso ci fanno compagnia, ci danno quell’energia che miglio dopo miglio sentiamo di perdere. Passiamo dai quartieri caratteristici con le casette a schiera, ai quartieri popolari per raggiungere il centro economico e finanziario con i grandi grattacieli che in altezza si perdono tra le nuvole; Staten Island, Brooklyn, Manhattan, Queens, il Bronx, sono i distretti che attraversiamo, animati da tanta gente che ci applaude e ci incita. I bambini con la mano cercano il nostro “cinque”, noi battiamo decine e decine di mani. Ci offrono cioccolatini, dolcetti di Halloween, gelati, salviette per asciugare il sudore, tante banane».
La crisi del 35esimo chilometro. «Ci facciamo forza a vicenda, siamo stanchi, le gambe sembrano non volerne più, ora è la testa che deve essere convinta di farcela: non possiamo mollare oraci ripetiamo. La gente vuole che arriviamo tutti: stringiamo i denti e proseguiamo; il traguardo è ormai vicino. Entriamo in Central Park, il meraviglioso polmone verde di Manhattan: ancora 2 miglia e ce l’abbiamo fatta. Go, go, go, ci urla la gente applaudendoci. Una curva, poi due, dei continui Sali e scendi che mettono a dura prova le nostre gambe».
Ecco il traguardo, finalmente. «Ci guardiamo con un grande sorriso liberatorio e attraversiamo la linea del finish. Ormai la stanchezza non si sente più, c’è solo una grande felicità per avercela fatta. Poco importa se ci abbiamo impiegato 3, 4 o 5 ore, la vera gioia e soddisfazione è avere messo il nostro nome nella più bella ed emozionante maratona al mondo, essere stati protagonisti di questa meravigliosa avventura, un sogno che si è realizzato nel migliore dei modi. Grazie a tutto il gruppo della Valdalpone!».

Filippo Lussana vola a Seul per brillare nel firmamento della danza

di Paola Bosaro

Ha solo 19 anni ma è già lanciato nell’Olimpo della danza. Filippo Antonio Lussana di San Bonifacio è partito il 20 gennaio scorso alla volta di Seul, dove entrerà a far parte della Universal Ballet, la più importante compagnia di ballo nazionale coreana e una delle più apprezzate a livello mondiale. I contatti con la Universal Ballet sono stati allacciati grazie ad un suggerimento della fisioterapista del ragazzo, impegnato fino al dicembre scorso nel balletto di Stato di Monaco di Baviera. La donna ha rivelato al giovane ballerino che a Seul sono molto richieste due qualità che lui possiede, ovvero la tecnica e la fisicità. Lussana ha inviato un cd con prove di ballo ed esercizi. È stato subito contattato dalla compagnia e ha ricevuto il contratto. È l’unico ballerino italiano alla Universal Ballet.
Com’è nata la passione per la danza?
«La passione per la danza è iniziata quando avevo 10 anni, dopo che avevo visto per un po’ di tempo le coreografie di alcuni ballerini di un camping che si esibivano per i villeggianti d’estate. Nel 2007 mi sono iscritto al Centro studi danza Attitude, diretto da Antonella Pagin, San Bonifacio. Nel 2010 sono partito per Milano, dove ho studiato per un anno all’accademia Teatro alla Scala. Dal 2011 al 2014 ho fatto parte de Il Balletto di Castelfranco Veneto, poi sono passato al Bayerisches Staatsballett di Monaco, nella compagnia junior».
Hai partecipato a corsi di perfezionamento?
«Sì, certo. Sono stato alla Royal Ballet School di Londra, all’American Ballet Theater di New York, all’Harid Conservatory di Miami. Ho inoltre seguito lezioni con coreografi e direttori di fama internazionale. Da un anno svolgo pure attività di manager nella More Dance Solutions, un’associazione che ho fondato con la pianista Irina Sorokina, ed organizzo eventi per la danza, soprattutto in Italia».
Hai qualche altro interesse al di fuori della danza?
«Una delle mie passioni è l’informatica. Fin da piccolo mi sono dedicato alla realizzazione di siti web e di tutto ciò riguardasse la programmazione e l’informatica in generale».
Quando è avvenuto il primo salto di qualità?
«Il primo vero salto di qualità è stato l’ultimo anno alla scuola Il Balletto, dove ho vinto sia concorsi nazionali che internazionali, guadagnando borse di studio per diverse scuole in Europa e America e la possibilità di entrare presso la compagnia junior del Bayerisches Staatsballet di Monaco. Il principale riconoscimento è stato il secondo posto in Europa, nel concorso Youth America Gran Prix (Yagp) di Bruxelles, una competizione riservata ad allievi di scuole di danza di tutte le nazionalità. Grazie a questo piazzamento ho avuto la possibilità di presentarmi alla finale di New York».
In quali teatri prestigiosi hai ballato e quali sono state le coreografie più significative che hai affrontato?
«Ho ballato nei teatri di Monaco, Berlino, Riga, Stoccarda, Praga, Tel Aviv, Cannes, Bruxelles, Milano, Udine e Verona. Ho avuto occasione di confrontarmi con danzatori e coreografi professionisti, interpretando molti ruoli ed affrontando diversi balletti di repertorio, come Paquita con il Bayerisches Staatsballett, Allegro Brillante di Balanchine, il Concertante di Hans Van Manen e Jardi Tancat di Nacho Duato».
Che cosa pensa Filippo della danza?
«Per me la danza è un modo di esprimersi senza l’uso delle parole, è motivo di gioia e libertà».
Chi sono i tuoi miti? A che cosa aspiri in futuro?
«Tra i miei miti ci sono Carlos Acosta del Royal Ballet, Vadim Muntagirov, sempre del Royal Ballet, Daniil Simkin dell’American Ballet Theater. In futuro vorrei continuare la mia carriera ancora in grandi compagnie e, ovviamente, provare a diventare solista».

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Lala Lubelska, l’amore dentro ai lager

Luci soffuse, una malinconica melodia rotta dalla voce di un lettore. è iniziata in questo modo la serata presso il Modernissimo di Noventa Vicentina dedicata al giorno della Memoria, voluta dalla sinergia dell’amministrazione comunale, l’assessorato alla cultura e la biblioteca comunale.
A ripercorrere i tempi del filo spinato, delle brutture della guerra, della crudeltà di cui l’uomo è capace è stato il dott. Giorgio Cicogna, figlio di Lala Lubelska testimone della Shoah, prima nel ghetto di Lodz in Polonia, per poi essere deportata ad Auschwitz quindi a Mauthausen nel 1945.
La serata, iniziata intorno le 21.00, ha incollato gli spettatori di età diverse che, affascinati e allo stesso tempo atterriti dalla voce di Giorgio Cicogna, non hanno potuto fare a meno di confrontarsi con uno spaccato di vita, di situazioni e di drammi che solo la cruenta guerra sa dare. Ma chi era Lala Lubelska? Lala era una donna che ha dato il suo primo bacio , a 18 anni, ad un ragazzo nel vagone piombato per Auschwitz. Venivamo entrambi dal ghetto di Lodz, lui era portalettere e le faceva la corte. Di lui Lala non seppe più nulla.

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Lala Lubelska, ebrea polacca è stata testimone-chiave della Shoah, una donna che ha avuto il coraggio di accettare la fatica della memoria a una sola condizione, ossia quella di insegnare ai giovani che la vita è un bene unico, missione che porta avanti da anni il figlio Giorgio Cicogna che afferma «c’è sempre bisogno di dare lezioni di dignità e avere il coraggio di ricordare».
Anche nei lagher l’amore è possibile, e cosi è stato per questa incredibile donna, un amore rubato in un campo di lavoro. Correva l’anno 1945 quando Lala si innamorò di un veneziano, un prigioniero che le sorrise e le regalò un pezzo di pane, e che dopo la guerra sposò e le rimase compagna per la vita.
Lala lubelska, fu sempre e comunque una donna positiva, caratteristica che le passò il padre al prezzo della vita, come lei dichiarò durante un’intervista: «…capivo che in giro c’erano adulti che davano a tutti lezioni di dignità. Mio padre era di questi. Ad Auschwitz, quando l’ufficiale col frustino lo separò da noi per mandarlo a morire, lui ci salutò con un sorriso facendo ciao con la mano. Disse: voi ce la farete, lo so. Era un ottimista, quell’ottimismo è stato il suo regalo. Io sono felice ogni volta che respiro. Lo dico ai ragazzi delle scuole. È la voglia di vivere che ti salva. Certo, serve anche la fortuna. Io sono scampato alla morte tre volte, per puro caso. Ma l’amore della vita è quello che dice: non lasciarti andare. Mai».
Il dott. Cicogna nel recuperare il passato e sopratutto nell’inanellare le storie che raccontava sua madre e le sue sorelle, non smette mai di ricordare quanto complicato e duro sia stato il recupero mentale dei fatti bellici per propri parenti, poiché era impossibile sostenere la memoria di Auschwitz, se non possedevi grande equilibrio. Lì non c’era Dio, non c’era niente».
Era il 1947 quando Lala sposò l’uomo che conobbe nel campo di concentramento di Flossemberg: Giancarlo Cicogna, ed insieme a lui costruì la sua nuova famiglia in Italia, a Badia Polesine in provincia di Rovigo. Una donna che ha rissunto in sé un chiaro inno alla vita, Lala Lubelska.

ARCES ok vince e stupisce al tour vicentino 2015

Giunge inesorabile il termine della stagione con l’assalto finale ad una posizione che precede o ad un’estrema difesa della propria in classifica. Infatti molte categorie si sono date battaglia fino all’ultimo punto per il titolo di vincitore/vincitrice del circuito vicentino di gare di Orienteering.
Arces OK ha preso parte alla gara finale di Arzignano con la squadra al completo dalla quale emerge un folto gruppo di giovani tornati a casa con il loro bottino. Chi ha vinto il Beric-O Tour 2015 è riuscito poi a confermarsi campione anche del Tour Vicentino. Ed altri due neo campioni si sono aggiunti all’albo d’oro in questo finale di stagione. Senza contare i podi e qualche primo posto sfumato all’ultimo o lungo il percorso, Arces OK è campione provinciale in 8 su 15 categorie.
Nel 2015 gli atleti che si sono messi in maggior evidenza sono stati Annarita Scalzotto, che ha dato conferma durante la stagione di essere tra le candidate alla corsa al titolo nazionale 2016, e Tommaso Bari dal quale ci si aspetta un salto di categoria in M16 e un ulteriore salto di qualità soprattutto di livello fisico. Tra gli adulti spiccano il grande lavoro e i miglioramenti tecnici di Pierdomenico Vicariotto che in soli due anni di approccio alla disciplina può vantare un gigantesco passo in avanti.
Dal percorso Bianco di Gennaio 2014 ai percorsi Neri e Rossi del 2015 fino alle categorie agonistiche delle gare regionali e nazionali 2015! Tra le donne, Zaira Sartori non è da meno. Di seguito la foto dei vincitori dei trofei assegnati alla pizzata Arces OK di fine stagione: Miglior Atleta Adulto Arces OK 2015 (Pierdomenico Vicariotto), Miglior Atleta Giovane Arces OK 2015 (Annarita Scalzotto) e Giovane Talento Emergente Arces OK 2015 (Tommaso Bari). Tra i maschi under 14 anni a vincere è stato Tommaso Bari che ha interrotto la supremazia di Giacomo Bolla con una tattica cinica e spietata. Infatti fino alla 12° Tappa del Tour Vicentino la classifica vedeva: 1° Giacomo Bolla 621 punti 2° Rudi Frison 610 punti 3° Pietro Scalzotto 568 punti 4° Tommaso Bari 516 punti.
La strategia messa in atto da Tommaso gli ha permesso di recuperare lo svantaggio di metà stagione con continui risultati di alto livello nel periodo estivo-autunnale sui percorsi nero e rosso. Molto combattuto il secondo posto che è stato assegnato con una differenza di punteggio millesimale. Si è trattato di una sfida interna a tre: Pietro Scalzotto, Rudi Frison e Giacomo Bolla. Fino alla 16° gara (su 21 totali) è stato un continuo testa a testa tra Giacomo, Pietro e Rudi per la seconda posizione.
Prima Giacomo, poi Rudi e in agguato sempre Pietro. Dalla 19° gara in poi è tutto mutato. Pietro e Rudi allungano su Giacomo. Rudi prevale e conserva una certa sicurezza con una decina di punti di vantaggio.
Alla penultima gara Pietro recupera e si porta vicinissimo a soli 4 di svantaggio. Nella finale di Arzignano Rudi deve affrontare un terreno cittadino a lui non adatto. Sa bene che Pietro è veloce. Inizia la gara. Pietro è davanti fin dall’inizio. A metà gara consolida un vantaggio importante che perde nella seconda parte. Rudi arriva dietro a Pietro, ma si salva in extremis.
Ha un minuto e mezzo di svantaggio che si traduce in un solo punto risicato da Pietro. Non basta per i suoi sogni di gloria e la medaglia d’argento va a Rudi. Insomma, l’associazione ARCES sta dimostrando il suo valore e la sua passione nel mondo dell’orienteering.
Questo si deve al Presidente, Claudio Chiarello, ma soprattutto al giovanissimo Eugenio Trevisan, segretario e tesoriere dell’associazione, il quale con grande passione e precisione segue gli allenamenti dei giovani promettenti.

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Artica 2016

Da 30 a 330 in tre anni. Sono i primi incredibili numeri di questa bellissima edizione de l’Artica 2016 che ha visto, oltre ad una vastissima partecipazione di ciclisti da molte parti d’Italia, una sinergia straordinaria tra moltissime persone e associazioni diverse che hanno trasformato una fredda domenica di fine gennaio in una vera e propria emozione. A differenza della scorsa edizione quest’anno la cicloturistica è partita dal centro di Lonigo, con Palazzo Pisani che ha segnato il via di una 58 km (28 per chi voleva fare il giro più corto) attraverso le meraviglie naturali dei nostri Colli Berici. Chilometri intervallati da tre ricchissimi ristori che hanno ampiamente rifocillato i temerari ciclisti con panini, salame ai ferri, polenta e baccalà, frutta e dolci a volontà il tutto innaffiato da dell’ottimo  vino e dall’immancabile brulè. Un tragitto che si è snodato attraverso alcuni tra i punti più spettacolari dei Colli Berici: da Bagnolo ad Alonte fino a raggiungere Grancona per poi tornare a Lonigo passando per Meledo e Sarego, in un susseguirsi di salite, discese e tratti pianeggianti dove il paesaggio è stato l’elemento caratterizzante e quello che ha stupito di più i ciclisti specialmente quelli ‘foresti’. La fatica c’è stata ma i sorrisi che tutti, dai ciclisti agli operatori, ai volontari fino agli organizzatori che si sono dati da fare affinché tutto risultasse perfetto, sono stati l’ingrediente principale di una straordinaria giornata conclusasi con un bellissimo pranzo al bocciodromo dove si sono svolte le premiazioni a conclusione di un evento che è oramai diventato un momento irrinunciabile tra i cicloamatori d’epoca.

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Silvia Bernardini Mugna

Silvia Benardini Mugna è stata artefice e protagonista di un movimento culturale che ha interessato per molti anni, nel secolo appena passato, la cultura di Lonigo. Da attenta osservatrice quale ella fu, con la sua penna seppe cogliere con vena poetica e un filo di piacevole umorismo le emozioni e la quotidianità della sua gente

Era nata nel 1896 a Lonigo. La sua famiglia apparteneva a quella borghesia che si era andata formando alla fine dell’Ottocento e che si sarebbe ben espressa nei primi decenni del Novecento. In quel periodo Lonigo aveva saputo coniugare efficientemente fede e progresso, riuscendo a edificare contemporaneamente un grande Duomo e uno splendido teatro . Una città effervescente, piena di vitalità con le filande, i mercanti, il Circolo (l’ippodromo cittadino), le giostre, i cavalli e la Fiera.
Il padre di Silvia, un ingegnere di Venezia, era arrivato nella nostra città quale insegnante all’Istituto Tecnico.  Aveva poi sposato la figlia del farmacista Carazza, titolare della farmacia che ancora oggi si trova agli inizi di via Garibaldi, proprietà della famiglia Cardi.
Silvia aveva una sorella di nome Maria che avrebbe sposato Levade, proprietario di una orologeria sempre in via Garibaldi. Ebbe da giovane un’educazione buona e, come si usava allora nelle famiglie benestanti, apprese il cucito, un po’ di cucina,  canto, musica, letteratura, pittura e qualche nozione di lingua francese.
Come ricordava un’altra donna di talento che molti di noi hanno conosciuto, la Signora Anita Cavaggioni, Silvia Bernardini dimostrò fin da giovane particolari doti di intelligenza e di temperamento artistico. Così, ancora giovane, le furono offerti degli ottimi maestri a Verona e lei divenne un’ottima allieva. Fu attratta anche dal teatro e dall’opera, passioni che la accompagneranno per tutta la vita.
In quelle sue trasferte di studio e cultura nella città scaligera la accompagnava spesso un amico di famiglia Mugna Giobatta, detto Tita che Silvia chiamava scherzosamente “Papà Condusi”. Era questo signore il figlio di Giuseppe Mugna, un personaggio molto in evidenza a Lonigo, che aveva ricoperto cariche pubbliche e civili e che aveva fatto costruire una bellissima villa nel centro della città, l’edificio che noi tutti conosciamo come l’attuale sede municipale. Ebbene accadde che i due nonostante la grande differenza di età, più di 20 anni. convolarono a nozze.

commedia in villa
Lei diventò così la signora Mugna e andò ad abitare nel grande palazzo vicino al Duomo. Una residenza signorile con sette persone di servizio, un cocchiere con carrozza e un’automobile. Con il suo spirito giovanile in breve tempo seppe trasformare la nuova residenza in un ricco e movimentato salotto aperto alla cultura e all’arte. Una villa dove la presenza di artisti e letterati era continua.
Da studentessa divenne in breve tempo mecenate dei suoi insegnanti. Accanto al pittore Dall’Oca Bianca, al poeta dialettale Berto Barbarani e al musicista Renato Simoni seppe riunire gli amici leoniceni a cui aveva trasmesso il piacere della poesia e del teatro; ricordo i Levade, i Cassia, i Calzavara, la signorina Dora Sandri, i Carlotto, i De Pieri e Rossettini. Riuscì a convincere il marito a creare un piccolo teatro nel salone della villa per le rappresentazioni musicali, le commedie e le recite. Ad aiutarla in questa sua avventura culturale si affiancò un grande attore Primo Piovesan di Vicenza che amava chiamare questo luogo di aggregazione “il teatro giocondo”. Lei stessa aveva una spontanea vena poetica e componeva poesie e commedie. Con l’aiuto di Berto Barbarani si fece presentare nei circoli culturali più in voga, in particolare in quelli dialettali, partecipando anche a concorsi di poesia e a convegni ed incontri letterari.
Alcuni suoi lavori furono in quegli anni pubblicati su una prestigiosa rivista culturale dell’epoca “La Musa Veneta”, che purtroppo ebbe una esistenza molto breve. Su questa rivista, con cadenza quindicinale, aveva tra l’altro iniziato a pubblicare a puntate un romanzetto, un giallo, “La lettera scarlata”, veramente coinvolgente anche perché ambientato a Lonigo. Purtroppo a causa dell’interruzione della rivista non ho mai avuto il piacere di conoscere la conclusione della vicenda.
La gran parte dei suoi scritti erano composti in un dialetto particolare, un misto tra quello veronese e quello vicentino. Composizioni sempre legate alla sua terra, Lonigo, con una particolare attenzione alla vita dei cittadini, raccontando o sottolineando le emozioni, le paure e le incertezze umane. Dal balcone, offertole dalla sua posizione sociale, riusciva a leggere e a raccontare in poesia e in prosa la vita e la società leonicena. Spesso il tutto condito da un filo ironico e burlesco, quasi goldoniano. Alcune sue poesie contengono una forte carica che trasmette tutte le emozioni sprigionate dai tramonti, dal vento, dalla pioggia e dalle stagioni che molti di noi hanno vissuto muovendosi nelle vie, nelle piazze e sotto gli ippocastani del circolo di Lonigo. Fu testimone con la sua penna degli avvenimenti più importanti e le sue parole si caricarono delle aspettative per l’arrivo della Fiera di marzo coltivate dai cittadini di ogni età.
Per oltre dieci anni, grazie alla sua capacità organizzativa e alle disponibilità economiche, l’ambiente culturale di Lonigo ruotò attorno a lei. Una vera appassionata di teatro in cui lei rivestiva il ruolo di compositrice, quello di regista, a volte comparsa e altre quello di  prima donna. Il 27 aprile 1929 una sua composizione fu rappresentata con successo al teatro Comunale di Lonigo,“Fantasie blu”. Non fu l’unica rappresentazione pubblica. Anche il teatro di Cologna Veneta presentò delle sue commedie. In effetti le sarebbe piaciuto poter pubblicare i suoi lavori, ma a dire la verità non si impegnò mai veramente per la pubblicazione.
Qualche anno dopo un tracollo finanziario della famiglia la costrinse ad abbandonare la villa e a trasferirsi a Lobbia. Questo non le impedì di coltivare anche là la passione per la cultura. Berto Barbarani andò spesso a trovarla e anche Dall’Oca Bianca. Con alcune delle sue amiche continuò a mantenere vivo il suo salotto, certo non più con lo sfarzo e l’impegno di un tempo, dilettandosi a comporre e a scrivere. Quando il marito morì negli anni cinquanta, ritornò a Lonigo nella casa paterna, la palazzina che si trova ancora oggi in via Roma vicino al Circolo.
Non riprese la vita mondana, ma continuò in modo riservato a mantenere vivo il suo interesse per la cultura e la società, ricevendo quotidianamente le sue anziane amiche nel salotto di casa per conversare come un tempo davanti ad un tè e a dei pasticcini. E come si addiceva alla vecchia buona società, si chiudeva l’incontro con una partitina a carte. Ed è in uno di questi momenti che la conobbi.
Un pomeriggio di molti anni fa mi venne chiesto di partecipare quale quarto giocatore in sostituzione di un’amica assente. Fu in quella circostanza che conobbi, in Via Roma, la padrona di casa: la signora Silvietta Mugna, come confidenzialmente era chiamata dalle amiche. Salii al primo piano in una sala arredata con mobili antichi e con delle vecchie stampe appese alle pareti. Ricordo che mi venne offerta una tazza di tè con dei biscottini. Un rito questo per me inusuale. A volte la briscola lasciava il posto al poker puntando delle fiches rappresentate da chicchi di riso. In quei pomeriggi il gioco si chiudeva con un bicchierino di vermouth. Non ricordo quante volte mi recai nella casa della signora Mugna, non molte, perché la signora assente rientrò presto in gioco.
Quei pomeriggi furono per me un vero avvenimento perché mi hanno permesso di essere partecipe di uno degli ultimi sprazzi di vita di una società che era stata protagonista di un periodo vorrei dire rinascimentale per la storia di Lonigo, almeno sotto l’aspetto culturale.
Aggiungo che in quelle ore pomeridiane non si era solo giocato, ma mi era stata offerta la possibilità di visitare una dimora di una grande signora dove avevo potuto toccare con mano delle testimonianze rare come lo spadino che stava appoggiato sulla cassapanca all’ingresso e che era appartenuto all’ultimo podestà veneto di Lonigo e conoscere la storia delle stampe appese alle pareti, suoi cari ricordi. Mi parlò anche dei personaggi che lei aveva conosciuto e che erano stati  protagonisti della cultura e della storia della nostra città e di uomini e donne semplici pure essi protagonisti di alcune vicende cittadine.
Per me la signora Mugna rappresentava l’anima degli ambienti di una città diversa da quella che conoscevo e che stava sfumando in un forte anonimato. Qualche tempo più tardi, mentre attraversava la strada davanti al Duomo, fu investita da un’automobile. Dopo una lunga degenza presso l’ospedale di Lonigo fu trasferita alla Casa di riposo di Montebello, ma la signora Silvia Bernardini Mugna non era più quella da me conosciuta: lo shock subito e l’età avanzata le avevano offuscato la memoria.
Trascorsi alcuni anni, mentre la sua Lonigo viveva ancora la propria incolore quotidianità, silenziosamente si spense, era il novembre del 1983.

Microsoft Word - Foto Teatro Fantasie blu.doc

Tanti auguri… ponte sul Guà

di Paola Bosaro

Uno dei simboli di Zimella ha festeggiato il mese scorso il secolo di vita. Non tutti lo sanno, ma il ponte in ferro sul Guà ha compiuto a novembre 100 anni. L’1 novembre del 1915, infatti, terminò l’edificazione dell’importante passaggio in metallo sul fiume. A questo argomento l’appassionata di storia locale Licia Nogara Ticinelli ha dedicato un articolo molto dettagliato, apparso la scorsa estate sui «Quaderni di Coalonga».
L’opera che collega l’abitato ad est a quello ad ovest della frazione fu pensata e voluta dal Comune per sostituire il vecchio ponte di legno che congiungeva da più di duecento anni le due sponde del fiume.
Ai primi del Novecento, il ponte di legno si presentava troppo stretto per le nuove esigenze viabilistiche dettate da un’industria in via di sviluppo, soprattutto grazie alle officine «Bertolaso». Inoltre l’insfrastruttura era deteriorata e costituiva un serio pericolo per i passanti. Durante le piene del Guà, le due file di piloni piantate nel greto del fiume trattenevano i detriti, ostacolando così il regolare deflusso delle acque.
Il 4 novembre del 1912, il sindaco Bortolo Bertolaso deliberò la realizzazione di un nuovo ponte. Redasse lui stesso il progetto e lo inviò al Regio ufficio del Genio civile di Vicenza. L’incarico dei lavori fu affidato alla Società nazionale delle Officine di Savigliano-Torino, ditta di prestigio nelle costruzioni in acciaio, artefice della copertura della stazione centrale di Milano. Intanto, durante la stesura del progetto definitivo, i costi per le materie prime stavano crescendo vertiginosamente a causa della guerra.
I lavori iniziarono il 9 agosto del 1915 e i tecnici si trovarono presto a fare i conti con l’impetuosità del Guà nei mesi autunnali. Si rese dunque necessario aumentare le dimensioni delle due spalle «per la grave esposizione alla forza escavatrice e demolitrice delle piene del fiume», si legge nei documenti conservati in Comune. Il nuovo ponte fu completato con una spesa di 6.267 lire, a fronte di un preventivo di 4.357 lire. L’opera fu collaudata il 29 luglio 1916.
Una data da ricordare è senz’altro il 3 maggio 1942 quando, in piena Seconda guerra mondiale, le mogli e le madri zimellesi avevano portato a benedire al santuario della Madonna dei miracoli di Lonigo decine di stendardi, chiedendo la grazia del ritorno a casa dei propri mariti e figli sani e salvi. Il 4 ottobre, in occasione dell’inaugurazione della Grotta di Lourdes realizzata dal beato Claudio Granzotto a Zimella, le donne sfilarono in processione sul ponte del Guà, implorando la salvezza dei soldati lontani. Sul finire della guerra, il ponte divenne bersaglio delle forze militari contrapposte. Nel 1945 un aereo americano colpì un automezzo tedesco che stava transitando sul ponte. I militari fecero in tempo a salvarsi, riparandosi dietro gli argini; rimase invece ferito un uomo che casualmente passava di lì.
Una delle curiosità storiche riguarda un episodio della Seconda guerra mondiale, di cui rimane una testimonianza tangibile. Il ponte, infatti, fu protagonista di un’altra sparatoria negli ultimi giorni di guerra. Il 25 aprile del 1945 truppe di fanteria statunitensi, provenienti da Sule ed intenzionate a passare il ponte, furono bersagliate di colpi di mitragliatrice da parte di un gruppo di soldati tedeschi, appostati su un terrazzino del mulino «Bertolaso». Gli americani risposero al fuoco e i tedeschi dovettero abbandonare le loro posizioni, lasciando sul terreno tre morti. I segni dello scontro armato sono ancora oggi visibili sui profilati metallici del ponte.
Nel 2011 la struttura in metallo è stata ristrutturata e consolidata, ed è stata costruita una passerella pedonale adiacente richiamando il metallo del ponte ed abbellendo i parapetti con figure geometriche. Nell’ultimo triennio sono state realizzate infine due rampe di accesso in porfido con parapetti in ferro, inserite nel percorso turistico ciclo-pedonale del Pia-R del Colognese.

Nuove risorse per manutenzione del territorio e nuove opere

di Matteo Crestani

San Bonifacio, 30 novembre 2015. “Il 2016 sarà un anno importante, perché grazie alle maggiori entrate previste, intendiamo onorare con ancor più vigore l’impegno assunto con i cittadini contribuenti. Saranno intensificate le opere di manutenzione ordinaria volte a salvaguardare il territorio e l’ambiente. Realizzeremo importanti interventi di bonifica per la messa in sicurezza di aree a rischio, anche in un’ottica di prevenzione, ed interventi per estendere l’irrigazione”.
Con queste parole il presidente del Consorzio di bonifica Alta Pianura Veneta, Silvio Parise, è intervenuto a seguito dell’assemblea di approvazione del bilancio di previsione 2016. Nell’ultimo quinquennio la quota di contribuenza è rimasta sempre inalterata, ma a seguito delle maggiori spese di manutenzione sostenute dall’Ente consortile, si rende improcrastinabile un ritocco dell’importo, anche per poter continuare a garantire un servizio adeguato. «L’aumento della quota nella misura del 3,48% – aggiunge il presidente Parise – trova giustificazione nelle maggiori spese sostenute in particolare dal punto di vista dei consumi energetici. L’estate trascorsa, con un’importante siccità, ha indubbiamente creato non poche difficoltà e, non vi è dubbio che abbia contribuito ad aumentare le spese, analogamente a quanto è avvenuto a seguito delle passate alluvioni».
E, proprio memore di quanto accaduto nel recente passato, il Consorzio di bonifica Alta Pianura Veneta ha deciso di intervenire con energia su alcuni nodi cruciali del territorio di competenza. Sono innumerevoli gli interventi sui quali verrà posta attenzione nel corso del 2016, ma elenchiamo di seguito quelli particolarmente degni di nota:
Messa in sicurezza dell’argine dello scolo Ferrara ad Arcugnano (VI): si tratta di un progetto di adeguamento e ricalibratura dell’argine del canale Ferrara, attività di fondamentale importanza per evitare che si susseguano, come avvenuto in passato, frequenti allagamenti dell’area abitata, con i conseguenti immaginabili danni e disagi. L’importo previsto è di 500 mila euro.
Sistemazione delle sponde delle rogge Feriana (Rettorgole di Caldogno – VI) e Porto (Cresole di Caldogno): il progetto, a seguito degli importanti avvenimenti alluvionali del 2010, prevede ulteriori interventi di sistemazione delle Rogge, situate nelle località di Caldogno e Cresole, del comune di Caldogno, nonché la loro riqualificazione dal punto di vista paesaggistico-ambientale. Il tratto di estensione è di oltre un chilometro per ciascuna roggia e l’importo previsto ammonta a 750 mila euro.
Nuovo impianto irriguo in Val Tramigna: è prevista la realizzazione, in un territorio collinare di oltre cento ettari, coltivati a vite, di un impianto irriguo a goccia. Si tratta di un intervento resosi particolarmente necessario a seguito della pesante siccità della scorsa estate e che mira a tutelare le colture specializzate dell’area collinare, preservando, quindi, l’economia ed i prodotti tipici del territorio, da sempre vocato alla viticoltura. L’intervento prevede un costo di 300 mila euro.
Messa in sicurezza del fiume Tribolo per ridurre il rischio idraulico: l’intervento prevede la realizzazione di difese di sponda, rinforzi di sponda e rispristino della funzionalità idraulica del corso d’acqua, gravemente compromessa dalle alluvioni del 2010 e 2012. L’opera si è resa necessaria a seguito dei frequenti allagamenti che hanno interessato le aree abitate ed industriali dei Comuni di Bolzano Vicentino, Quinto Vicentino e Vicenza. Il tratto oggetto di intervento riguarda un percorso, da Torri di Quartesolo alla località Ospedaletto, di oltre quattro chilometri. L’importo previsto per l’esecuzione delle opere è di 900 mila euro.
Rialzo degli argini dello Scolo Ronego a Noventa Vicentina e Poiana Maggiore (VI): il progetto prevede interventi di rialzo arginale, difese di sponda e rinforzi, per un importo complessivo di 300 mila euro, resisi necessari in particolare dopo gli importanti eventi del gennaio 2014. Il tratto interessato dalle opere si estende per circa quattro chilometri.
Messa in efficienza dell’impianto idrovoro Zerpa ad Arcole (VR): lo snodo idraulico della bonifica fondamentale per una vasta area del Veronese, attualmente alimentato a diesel, verrà reso più efficiente attraverso un’alimentazione elettrica, così da renderne più semplice la gestione ed eliminarne i malfunzionamenti.
Il progetto, infatti, contempla interventi di ammodernamento e potenziamento dell’impianto, mediante la sostituzione di una pompa, l’elettrificazione ed il telecontrollo. La spesa relativa all’intervento ammonta a 600 mila euro.
I numeri del Consorzio di bonifica Alta Pianura Veneta. È opportuno ricordare che il Consorzio di bonifica Alta Pianura Veneta gestisce 2.800 km di rete idraulica di bonifica, di cui oltre 1.200 km con funzioni miste di scolo ed irrigazione; 21 impianti idrovori di sollevamento con una potenzialità totale di oltre 60 metri cubi al secondo; 68 impianti a servizio dell’irrigazione tra cui 19 pozzi di prelievo e 49 tra impianti di sollevamento e rilancio; 310 km di rete irrigua a pressione a servizio di un’area attrezzata con impianti a pioggia ed a goccia pari a 3.400 ettari; 39.182 ettari serviti da irrigazione di cui: 3.382 con impianti a pioggia ed a goccia; 1.597 irrigati a scorrimento e 34.210 serviti da irrigazione di soccorso.

Marzia Bedeschi, una pittura da indossare

di Francesca Dalla Libera

Nata a Padova nel 1967, ha conseguito il diploma magistrale, il diploma di Maestro d’Arte in Decorazione Pittorica e, nel 1991, il diploma in Pittura presso l’accademia di Belle Arti di Venezia. Da allora si è sempre interessata di pittura approfondendo la propria conoscenza tecnica nei settori del Trompe l’oeil, della pittura ad acrilico, dell’acquerello, realizzando opere sia per privati che per locali pubblici.  AREA3 l’ha avvicinata per comprendere che cos’è il bodypainting e per valorizare le opere di questa straordinaria interprete.

Cosa significa, per lei, essere “pittrice di corpi”?
«Dipingere un corpo è molto diverso dal dipingere una tela. La persona che viene dipinta fa un gesto di fiducia nei confronti di chi la dipinge e questa responsabilità che sento, mi spinge sempre a dare il meglio per creare un’opera che la persona sia contenta di “indossare”.
Dipingere sul corpo rappresenta per me incarnare un’idea, che diviene viva pur rimanendo effimera: l’opera nasce, cresce, vive, respira solo per poche ore. In questo il bodypainting assomiglia molto ai mandala creati dai monaci buddisti, i quali vengono cancellati poco dopo essere stati completati per sottolineare l’ impermanenza di ogni cosa creata. Per questo nel nostro lavoro il ruolo della fotografia è molto importante, essendo l’unico mezzo che può testimoniare la creazione e l’esistenza dell’opera. Infatti , una delle caratteristiche di quest’arte è l’esistere in sinergia con altre, come appunto la fotografia, ma anche la danza e la musica, spesso accade che chi indossa questi dipinti sia anche un performer che grazie ai propri talenti fa vivere l’opera in maniera personale e spettacolare».
Che cos’è il bodypainting?
«Una tra le più antiche popolazioni che fa uso del bodypainting sono gli aborigeni Australiani: dal 60.000 a.C. dipingono i loro corpi a scopo rituale, celebrativo e propiziatorio. Ma la pittura sul corpo è stata praticata in tutti i tempi e in tutti i luoghi, dagli uomini della preistoria agli Egizi, dai Sumeri ai Giapponesi agli indiani d’America. I colori utilizzati erano tutti di origine naturale, quindi vegetale e minerale, provenienti dal luogo stesso dove gli abitanti erano insediati. Venivano applicati poi sulle parti del corpo da decorare, usando dita o pennelli.
Tutt’oggi, in molte zone del pianeta come Amazzonia, savane africane, giungle indiane, quest’arte viene praticata per scopi sciamanici e rituali. Nel mondo globalizzato ha invece assunto significati completamente diversi. Nel 1933 Max Factor, dopo aver truccato interamente la sua modella, la espose alla Fiera Mondiale di Chicago, il risultato fu l’immediato arresto di entrambi per disturbo alla quiete pubblica. Questo evento segnò l’inizio del bodypainting moderno, anche se sarebbero dovuti passare ancora molti anni prima che venisse riconosciuto e accettato come forma d’arte. Dagli anni novanta ad oggi, il bodypainting ha vissuto una rapida ascesa trovando applicazione nel settore pubblicitario, cinematografico e artistico in genere, oltre che come forma d’arte autonoma. Attualmente, in molte parti del mondo, Italia compresa, si tengono festival e concorsi di carattere internazionale interamente dedicati al bodypainting».

Da quanto tempo pratica bodypainting e in che modo ha scoperto questa passione?
«Dipingo da più di venticinque anni e nel tempo ho realizzato murales, decorazioni pittoriche e opere su tela con le quali ho anche partecipato a numerose mostre, sia collettive che personali. Nel 2011 ho sentito la necessità di approcciarmi a qualcosa di nuovo in campo pittorico e cercavo una superficie da dipingere che non avessi ancora usato, avendo già sperimentato quasi ogni tipo di supporto, tela, muro, soffitti, legno, vetro, stoffa, carta.. Fu da questa riflessione che mi venne l’idea del corpo umano. Cominciai a documentarmi sui colori adatti a questo uso e dopo varie ricerche, entrai finalmente in possesso della mia prima tavolozza per dipingere sulla pelle ed iniziai quindi a fare le prime sperimentazioni sul viso. Cominciai a trovare, grazie al web, altri artisti che si dedicavano alla pittura di corpi già da prima di me. Poi, nel dicembre 2013, volendo capire meglio come funzionasse quest’arte, decisi di iscrivermi ad un corso di una giornata tenuto a Milano da Matteo Arfanotti, uno dei migliori artisti italiani, già campione mondiale e italiano per questa disciplina. In quell’occasione appresi la notizia di un concorso a Carrara previsto per febbraio 2014, il Winter bodyart festival, e decisi di lanciarmi: fu in occasione di quel concorso che dipinsi un corpo intero per la prima volta…dopodiché, non ho più smesso!
Esistono scuole per questa disciplina?
Attualmente esistono delle scuole sia in Italia che all’estero di make up e trucco teatrale, che al loro interno hanno attivato anche corsi di bodypainting».

body painting 2
Secondo quali criteri sceglie i suoi modelli?
«La modella o il modello vengono scelti in base ad alcuni requisiti fondamentali: devono innanzitutto amare quest’arte, avere una bella presenza, essere pazienti, visto che la posa per un lavoro completo può variare dalle due alle otto ore, avere la capacità di posare in maniera disinvolta davanti alle macchine fotografiche e, possibilmente, avere delle doti espressive, come ad esempio la danza o il canto, nel caso in cui l’evento richieda l’esibizione sul palco dell’opera realizzata. In molte occasioni, la modella è stata mia figlia Sofia».
Che tipo di tinture vengono utilizzate?
«I colori utilizzati sono tutti all’acqua, quindi lavabili con una doccia, e studiati appositamente per la pelle, traspiranti e anallergici, appartengono alla categoria dei cosmetici».

In base a cosa sceglie il tema da rappresentare sul corpo? Ci sono tematiche che preferisce o sente particolarmente sue?
«Quando si partecipa ad un concorso, il tema viene dato dall’organizzazione, ma generalmente il tema è libero, tranne nei casi in cui ci sia un committente che richiede uno specifico argomento.
Personalmente, anche se il lavoro si basa su un tema dato, cerco sempre di inserire il mio linguaggio e le mie tematiche, che sono il Cosmo, l’Inconscio, il mondo dei Sogni e la Spiritualità».
è necessario un ambiente con particolari caratteristiche per dipingere?
«Generalmente riesco ad adattarmi a tutti gli ambienti, ma è fondamentale che ci siano buone condizioni di luce.
Ha vinto numerosi premi, l’ultimo a Riposto in Sicilia, che sensazioni le suscita vedere riconosciuta e premiata questa sua arte?
è una gran bella soddisfazione! Dietro ad un progetto ci sono molte ore di studio, di progettazione dei disegni, studio della composizione e dei colori e talvolta anche ore di prove . Tutto ciò per arrivare all’esecuzione vera e propria il più possibile preparati in ogni dettaglio. Questo anche perché il tempo impone dei limiti imperativi, ad esempio in un concorso generalmente si hanno a disposizione 6 o 7 ore. Quando il tempo scade, bisogna abbandonare i pennelli e quel che è fatto è fatto! Sempre, anche in un lavoro su commissione bisogna tenere conto del tempo, anche se con più elasticità, in quanto i modelli non possono posare all’infinito. Non da ultimo, soprattutto quando si parla di concorsi, bisogna tener presente che ci sono molte spese per gli spostamenti, i materiali e i modelli stessi, quindi veder riconosciuta e premiata la propria arte ripaga in termini di soddisfazione tutta la fatica che ci sta dietro.
Ma c’è anche un altro motivo di soddisfazione, più sottile se vogliamo e più importante: vedere la mia arte riconosciuta significa che sono riuscita a trasmettere qualcosa, un’emozione, un messaggio, un pensiero, un’idea, qualcosa che lascia un segno, una traccia di luce, un seme. Questo è il motivo per cui dipingo, che siano quadri o corpi. Credo che il linguaggio dei segni e dei colori possa trasmettere qualcosa di spirituale, che va da anima ad anima; è un linguaggio multidimensionale che ci permette di vedere ciò che la razionalità non contempla. L’Arte apre le porte verso altri mondi e il suo compito, secondo me, è quello di infondere bellezza, armonia e speranza in questo mondo».

Monumento in Piazza 4 novembre

di Attila Pasi

Intervista al vicesindaco mattia veronese con una tesi di laurea su Caporetto

Mattia Veronese, appassionato di storia, nonché Vicesindaco della città di Noventa Vicentina ci racconta la giornata dedicata al 4 Novembre e come l’Amministrazione Comunale si è ben calata nel grande centenario, che abbraccia gli anni che vanno da 1914 al 1918.
«Era il 24 maggio del 1915» – ci racconta il Vicesindaco – «quando siamo entrati in guerra e quindi oggi si va a celebrare, a commemorare un evento, la Prima Guerra Mondiale, che ha portato comunque all’Italia: Trento e Trieste (molti storici hanno parlato di una Quarta guerra di indipendenza) dove il nostro Veneto ha giocato un ruolo di grande attore e che ha visto il raggiungimento di un’ Italia unita. è questo il vero sentimento che si deve recuperare: l’ideale di Unità Nazionale e un orgoglio patrio; il festeggiamento vero sta nel sentimento nazionale .
Per quanto riguarda Noventa Vicentina, come in tutti i paese d’Italia, si ricorda con il 4 Novembre la fine della Prima Guerra Mondiale (4 novembre del 1918). La piazza, che si affaccia al nostro comune, è dedicata al 4 novembre; abbiamo al centro un monumento costruito a ricordo dei caduti della Grande Guerra dove vi sono nomi di tanti nostri concittadini e cognomi che sono legati alla memoria dei nostri concittadini, cognomi che sono presenti, famiglie che vivono qui a Noventa Vicentina. Quindi quel monumento è un omaggio e un ricordo a tutte quelle persone che non sono tornare dal fronte e che hanno pagato con la propria vita l’amor patrio. Quindi dal mio punto di vista nell’osservare quell’opera che troneggia in Piazza 4 Novembre, è come essere difronte ad una tomba del Milite Ignoto. Per noi quel monumento deve essere sacro e considerato come tale».
Secondo lei quanto conta la storia e la conoscenza di essa?
«Proprio con la celebrazione del centenario in questi ultimi anni ci si è riavvicinati molto alla storia con i suoi fatti. I media, dalla carta stampata, al web, alle emittenti televisive, stanno dedicando molto spazio a questi grandi eventi, ritornano i vecchi documentari e c’è una costante ricerca di nuove storie. Si indaga e si celebra la nostra storia sempre più, è ritornato il fascino del collezionismo dei reperti bellici, come il collezionismo di carattere documentaristico legato a libri, a manifesti e a cartoline. Negli ultimi 10 anni il ricordo della grande guerra è tornato in auge e soprattutto nei nostri territori si sono ripresi sentimenti legati alle piccole storie. Dobbiamo ricordare che ogni singola nostra famiglia ha un nonno oppure un bisnonno, un avo che ha partecipato alla guerra. Ogni nostra famiglia ha un alpino, un fante, che una volta tornato a casa, ha avuto modo di raccontare i vari eventi. Ha raccontato episodi, ha ripercorso la vita di trincea. Tutti quanti noi abbiamo in soffitta almeno un reperto bellico di quel periodo».
Mi faccia un esempio a titolo personale?
«Io ho a casa delle cartoline che mi ha donato mia nonna e che facevano parte della prima guerra mondiale, spedite dal mio bisnonno che era caporale in quel di Asiago. Al tempo mio nonno scriveva alla morosa, che poi è diventata mia bisnonna, e siccome era in zona di guerra e le cartoline dovevano essere scritte senza citare dove si era. C’era un piccolo segreto, scrivevano qualche parola dolce alla morosa sotto il francobollo. Sono questi tipi di episodi, alla portata di tutte le nostre famiglie e quindi anche della mia».
Vedo in lei una grande passione per la storia, da come ci ha raccontato questi fatti, come è nato il tutto?
«Nasce dalla lettura del libro: “Il Piccolo Alpino” che mi regalò mio padre, da qui ha preso vigore la mia passione per i fatti bellici arricchita dalla lettura di molti altri libri. Alle superiori, la storia rimaneva una delle materie da me preferite, per approdare poi all’università, quando casualmente, sono passato davanti ad una vetrina di un negozio di antiquariato difronte la facoltà, scienze politiche, e c’era questo manifesto del Soldato del Mouzan. Dovete sapere che uno degli aspetti importanti della Prima Guerra Mondiale era la propaganda. Soprattutto durante la Prima Guerra Mondiale, tutta quanta la parte non bellica a partire dalle stesse attività commerciali erano comunque indirizzate a dare soldi, a sostenere con dei contributi il sostegno della causa bellica e lo stato aveva necessità di raccogliere fondi che sarebbero di conseguenza stati destinati per mantenere i soldati al fronte. Per far questo dovevano militare le coscienze come è stato fatto all’inizio del 1914. Con l’entrata in guerra l’interventismo si è trasformato in propaganda, bisognava sostenere moralmente il fronte e si cominciò a parlare del famoso fronte interno. Lo Stato ha emesso vari prestiti nazionali, ben 6, o meglio 5 durante il presidio che va dal 1915 al 1918 mentre il sesto dal 1918 al 1920 che è stato dedicato alla raccolta fondi per la riconversione.
Le banche, gli Istituti di Credito, le Poste, il Ministero stesso della difesa ha ingaggiato una serie di artisti e cartellonisti dell’epoca poiché non esistevano ancora alternative forme di comunicazione, facendo di conseguenza della cartellonistica l’elemento per eccellenza dedicato alla raccolta fondi anticipando il classico modo di fare pubblicità. Ritornando a noi… Passavo davanti a questa vetrina che esibiva un manifesto del Soldato del Mauzan, con il dito puntato, con scritto sotto: “Fate tutti il vostro dovere!”. Quella fu la mia prima numero uno! Sono entrato da studente senza soldi, avevo il desiderio di possedere quell’opera. Il negoziante mi guardò un po’ di sbieco poiché era abituato a tutto un altro genere di clientela, era ancora l’ottobre 1997. Quindi fermai l’opera e mese per mese la riscattai. Da qui nacque la mia passione per la prima guerra mondiale sulla documentaristica della grande guerra laureandomi poi su una tesi su Caporetto».